Il Prof. Brandani presenta: “L’interprete”, di Annette Hess
Pubblicato su “La Freccia”, gennaio 2020
È una riflessione sul presente, o meglio su ciò che realmente facciamo perché il nostro vissuto sia il più vicino possibile ai nostri ideali. Spesso siamo vittime di meccanicismi, agiamo senza pensare, talvolta quando ci soffermiamo a riflettere quasi temiamo i nostri pensieri. Anche Eva, la protagonista del romanzo di Annette Hess, sempre di più, comincia a sentirsi estranea alle sue abitudini. Non riesce a trovare un confronto e neanche un conforto nella sua famiglia. Si fanno strada in lei le contraddizioni tra ciò che sente giusto e il modo in cui decide di agire.
Francoforte 1963. Eva è una giovane interprete dal polacco, in procinto di sposarsi. Nel suo lavoro traduce di solito documenti legali e commerciali. Una sera, però, viene chiamata d’urgenza per un lavoro insolito. Siamo nell’anno del processo di Francoforte-Auschwitz, il primo procedimento giudiziario della Germania post bellica a sensibilizzare l’opinione pubblica sui crimini nazisti. E proprio Eva, nonostante l’opposizione della famiglia e del fidanzato, accetterà di essere l’interprete di questo maxi processo contro i capi dei lager nazisti.
Da questo momento cominciano in lei i dubbi, la spasmodica curiosità per una realtà così vicina nello spazio e nel tempo, ma anche così lontana dal suo quotidiano. Il processo andrà avanti per mesi, coinvolgendola sempre di più. I racconti dei testimoni toccheranno le corde più profonde della sua anima e del sentire comune, seppure in molti sembreranno ancora diffidare di quelle parole. Quando si comincerà a parlare di camere a gas e di torture nel campo di Auschwitz, Eva dovrà fare i conti con una nuova realtà da cui resterà all’inizio schiacciata.
Annette Hess, attraverso la sua giovane interprete, riesce a sviscerare dal profondo la reazione del popolo tedesco di fronte a quanto accaduto nei campi di concentramento. L’estraneità lascia il passo allo sgomento e all’incredulità e la protagonista dovrà scontrarsi con un’amara verità, che riguarda non solo il suo Paese, ma anche la sua famiglia. Sarà per lei un rito di passaggio, da giovane timida e sottomessa qual è, questa nuova consapevolezza la farà diventare, non senza sofferenza, indipendente e determinata. La graduale presa di coscienza sarà il trampolino di lancio verso la sua emancipazione. Con coraggio Eva sceglierà di voltare le spalle alla famiglia che scopre essere stata complice consapevole e silente di questo abominio e prenderà la strada che veramente vuole percorrere.
Il processo di Francoforte, in verità, fu un processo nel processo. Da una parte il procedimento giudiziario contro gli imputati nazisti, dall’altra il processo sociale contro l’indifferenza e la negazione dell’intera nazione di fronte ai crimini efferati compiuti da quegli imputati che, all’opinione pubblica, sembravano innocui padri di famiglia e non assassini seriali autorizzati dal governo.
In questo romanzo si parla di impegno e di rinascita, ma anche di omertà, vergogna e indifferenza. E si fa luce alla generazione postbellica e a quello che il nazismo ha loro lasciato.
Il Prof. Brandani presenta: “Ti regalo le stelle”, di Jojo Moyes
Pubblicato su “La Freccia”, dicembre ’19
«Questo libro, più di qualsiasi altra cosa io abbia mai scritto, è stato un atto d’amore. Mi sono innamorata di un posto, e della sua gente, e poi della storia che ne è scaturita…».
Il titolo prende spunto da una poesia di Amy Lowell, che Alice, la protagonista del romanzo, legge su un libricino di poesie. E il romanzo stesso si muove intorno ai libri, al loro basilare contributo per aprire le menti alla conoscenza. Alice è una ragazza inglese di buona famiglia che decide d’impulso di sposare un giovane americano del Kentucky in visita in Inghilterra, per sfuggire a una vita dietro ai fornelli e ai doveri di una donna dell’epoca. Ben presto, però, si rende conto che in America la realtà non è molto diversa, anche se nel Kentucky troverà altre donne che come lei intendono rendersi utili e lo faranno realizzando la prima biblioteca itinerante d’America, consegnando ogni mattina, a cavallo o a dorso di mulo, ceste di libri tra le montagne sperdute o in valli solitarie. È il 1937 e in terra americana il divario fra uomo e donna è profondo, così come i diritti dei lavoratori e dei neri sono letteralmente inesistenti. Il Kentucky è l’America profonda, il Far West, poche centinaia di persone povere e ignoranti, lo sceriffo e il proprietario della miniera di carbone. Persone grette e ottuse, piene di pregiudizi e diffidenza. Un muro di ignoranza che lo spirito di cinque donne coraggiose riuscirà però a sfondare.
Jojo Moyes, con penna leggera ma incisiva, ci fa entrare in questa comunità, ci accosta ai suoi abitanti e a queste donne, ispirandosi a fatti realmente accaduti, come il Progetto Eleanor Roosevelt che in quell’anno finanziò la prima biblioteca itinerante d’America, portando la luce della cultura e combattendo la piaga dell’analfabetismo. Non si può rimanere indifferenti di fronte a un racconto che elegge al primo posto l’amore per la lettura, per i libri e per tutte le donne che hanno contribuito a trasformare questo sentimento in un valore per l’intera società. Nella natura incontaminata del Kentucky, tutte le mattine prima dell’alba, cinque donne legate da una straordinaria amicizia partono coraggiosamente a cavallo o a dorso di mulo per consegnare libri in case lontane da ogni forma di civiltà, affrontando una lotta eroica nei confronti di un duplice inquinamento: quello prodotto dall’unica miniera esistente in paese e quello delle coscienze di una classe di maschi insensibili a ogni fremito di rinnovamento e di giustizia sociale (emergono però anche ritratti di uomini che riscattano la figura del maschio arrogante e prepotente).
C’è l’amore in quest’opera, c’è l’amicizia, la generosità, e insieme il pregiudizio e l’avidità. E, come nei grandi romanzi dell’800, scende in campo anche la giustizia ingiusta, pronta a colpire nelle terre ghiacciate del Kentucky. Non vi diremo come finisce la storia, ma vi possiamo assicurare che non la dimenticherete facilmente. Cambiare si può, perché le stelle brillano lassù sui destini degli uomini, offrendo chance inaspettate anche in situazioni apparentemente senza via d’uscita.
Il Prof. Brandani presenta: “Martin Eden”, di Jack London
Pubblicato su “La Freccia”, novembre ’19
Ho letto Martin Eden a 20 anni e mi parve un romanzo meraviglioso. L’ho riletto a 30 e mi piacque intensamente. Oggi che sono grande (di età, come dicono a Livorno) ho concepito il deliberato proposito di confrontare la percezione della stessa opera letteraria al mutare del tempo e delle età. Martin Eden è un rozzo marinaio che salva la vita del giovane Arthur, rampollo di una ricca famiglia. E sua sorella Ruth diviene per lui una sorta di ideale di bellezza.
Irraggiungibile fanciulla dell’alta borghesia, si ritrova a desiderarla tanto da voler fare parte del suo stesso ceto, ma il riscatto sociale passa dalla porta stretta della letteratura: Martin vuole diventare uno scrittore a tutti i costi (va ricordato che lo stesso Jack London, autodidatta, fece fatica ad avere successo). Pur non ritrovandosi nelle ipocrisie e nel disprezzo malcelato di quell’ambiente, si impegna a tal punto che quasi riesce a sfondare, ed è allora che scoppia la sua rabbia. Contro una classe piena di pregiudizi, incolta, e anche contro la sua autoaffermazione. Una rabbia che avverte come una sconfitta.
A 20 anni questo classico della letteratura americana mi colpì per come l’amore struggente di Martin per Ruth superava ogni cosa. Nel suo stomaco c’era sempre un formicolio, un dolore all’idea di poterla anche solo vedere, di un sorriso, di uno sguardo. Tutto pareva esser fatto per lei, dallo studio forsennato della grammatica, mentre era mozzo in mare, alle mille privazioni a cui si sottoponeva. La vita intera, insomma, era una sorta di riscatto d’amore. A 30 anni la forza dell’amore si era stemperata e due cose mi conquistarono: leggendo, avevo sentito l’odore del salmastro entrare di corsa nei miei polmoni e i venti alisei soffiare forte sul mio volto. Scoprii anche la forza d’animo di Martin (e di London) nel voler diventare scrittore. Alla stazione delle opportunità, come mi piace chiamare le chances che la vita ti offre, lui c’era sempre, di giorno e di notte, senza bere e senza mangiare, inesausto nel vedersi respingere 300 volte un articolo prima che fosse finalmente pubblicato o nel guadagnare tre dollari al mese quando solo l’affitto ne costava due e mezzo. E poi, pian piano, il successo, a riprova, mi dicevo, che la stazione delle opportunità almeno una chance nella vita la offre a tutti. Intorno ai 75 anni la parte finale del libro mi si è svelata di colpo come una grande anticipazione di quella che sarebbe stata considerata la più grande malattia del secolo scorso e cioè la malinconia che si trasforma in depressione. La valle d’ombra che pervade le ultime pagine dell’opera ci dice proprio questo. Del resto London è turbato nel leggere Jung e comprende che forse in fondo alle sue opere, anche le più note, vi è un abisso inesplorato.
Fernanda Pivano, che si è sempre sottratta alle critiche di maniera al grande scrittore americano, lo aveva spiegato bene: «Gli eroi di London cominciano sempre ad agire nel tentativo di conquistare la vita, di allargarla, di darle una dignità e finiscono per essere divorati, sconfi tti, ma dalla vita stessa, non dalla morte».