Ballando tra stupore ed emozione

15 Ott
15 Ottobre 2014

milly-carlucci-ballando-con-le-stelle_325x435Il sabato sera che non ti aspetti. Davanti alla tv c’è lo show più tradizionale della tv del terzo millennio: Ballando con le stelle, ormai un classico, giunto alla sua decima edizione. Agli ordini di Milly Carlucci tredici personaggi più o meno famosi, accoppiati a 13 maestri professionisti alle prese con l’arte del ballo.

Uno schema classico che nel tempo ha visto sfilare sul palcoscenico di Raiuno Diego Armando Maradona e Anna Oxa, Gianni Rivera e Bobo Vieri, Barbara De Rossi e Ridge (Ron Moss), una sicurezza in termini di eleganza e qualità che però dopo dieci anni pensi abbia consumato sorprese ed emozioni. E così mentre ti accingi a vedere lo spettacolo, con lo spirito con cui rivedi un bel film per la decima volta, la tua attenzione improvvisamente viene attratta da qualcosa che non cogli fino in fondo. Il film che hai più volte visto, ha una trama nuova, più fresca, più aggressiva, più coinvolgente. Ti spiazza, ti destabilizza ti trovi ad emozionarti per la verve del 91enne Albertazzi che non balla, ma ti fa venire la pelle d’oca, tanto che vorresti tirare il telecomando contro il giudice Zazzaroni che pure dice il vero, ma tu te ne freghi perché sul divano di casa ti è arrivata una scossa che non sentivi da tempo. Poi ti diverti alle mossette di Enzo Miccio e viene rapito dalla magia di Giusy Versace e del suo tenero cavaliere Raimondo Todaro. La protesi della campionessa paralimpica si stacca durante il ballo, eppure tutto è così tenero, vero, edificante. Non sembra neanche tv, sembra un romanzo, che si tinge di giallo quando fa il suo ingresso il misterioso Joe Maska, che balla mascherato, scatenando scherno e ironia, fascino e ammirazione.

Insomma non fai in tempo ad annoiarti ed ecco che dopo tanta brutta tv, tra fatti di cronaca e noiosa nostalgia canaglia, il più vecchio show del sabato sera, diventa un lampo verso il futuro.

Alberto Brandani

Mamma Radio non ti abbandona mai: neppure a 90 anni

14 Ott
14 Ottobre 2014

110291_90_anni_di_radioIl giorno in cui ci dovesse essere l’ecatombe terrestre stia pur sicuro che le notizie essenziali su come mettersi in salvo ci verrebbero date dalla radio. Perché la radio è l’unica che non si ferma mai”. Questa frase mi fu detta qualche anno fa da un funzionario Rai addetto alla messa in onda dei programmi televisivi che riconosceva così l’essenzialità di quella che, a torto, viene talora considerata la sorella povera dei mezzi di comunicazione.

La radio in Italia compie 90 anni e basta dare una rapida lettura alle statistiche per vedere come goda di ottima salute. Decine di milioni gli italiani che ogni giorno, anche solo per pochi minuti, accendono la radio per svagarsi o informarsi. Un mezzo non invasivo, che non richiede una particolare concentrazione all’ascolto, ma che accompagna molte ore della nostra vita. Quanti sono i negozi con il sottofondo musicale? Quasi tutti. E quanti sono abituati a guidare con l’autoradio sempre accesa? Quasi tutti. E moltissimi sono anche i ragazzi che sono in grado si studiare solo se, magari a volume basso, sono sintonizzati sul loro canale preferito.

Certo, la radio si è molto trasformata negli anni. Da strumento informativo dello Stato durante il regime a mezzo con cui diffondere una cultura popolare di massa durante gli anni di Bernabei, attraverso i radiodrammi, la lirica, la lettura di brani della letteratura mondiale. Poi è stata innovazione al passo della gioventù, con le classifiche musicali delle canzoni più popolari. E, ovviamente, è stata ed è anche racconto sportivo, con la trasmissione ancora oggi più celebre di tutte, “Tutto il calcio minuto per minuto“. Infine, la radio è stata il primo mezzo di comunicazione ad aprirsi al pluralismo delle idee e dei generi, quando, a partire degli anni Settanta, sorse il fenomeno delle radio libere. Un pullulare di esperienze e di diversità, spesso trasmesse con mezzi di fortuna, che raccontavano l’Italia, comune per comune, quartiere per quartiere. Un fenomeno oggi drasticamente ridotto a causa delle normative più stringenti e degli alti costi gestionali ma che comunque, soprattutto in provincia, cerca di sopravvivere. Un movimento culturale e di intrapresa che ha generato solide realtà come Rds, Rtl, Rmc, Radio 105, in grado di competere alla pari con un gigante come la Rai, con la radio pubblica che si è saputa radicare nel gusto degli ascoltatori con la sua tripartizione tra canale informativo, canale di intrattenimento e canale culturale. I novant’anni di trasmissioni sono quindi solo una prima tappa, perché la radio, con la sua immediatezza e facilità d’uso, non si fermerà mai.

Alberto Brandani

Igor Mitoraj addio

09 Ott
9 Ottobre 2014

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Un testimone della fragilità contemporanea ed un titano della scultura classica

E’ morto in silenzio, allontanandosi da noi Igor Mitoraj, lo scultore dei giganti feriti.
Le sue opere in bronzo realizzate in grandi dimensioni ed in parte con arti mozzati erano un monito contro lo scempio delle sculture dell’antichità ma anche una riflessione sulla precarietà del vivere.

La critica lo ha definito un gigante della scultura del ‘900 radicato sino in fondo nella tradizione classica.

Tre i luoghi mitici nella sua formazione e del suo itinerario artistico: la Provenza, Parigi e soprattutto Pietrasanta con la sua cornice dei marmi delle apuane.

Impossibile guardando le sue opere non sentirsi precipitare nella perfezione della classicità.

Tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, non potrà mai dimenticare i pezzi di arti, le monumentali teste agiate che raccontano le fratture, la perdita d’identità e la stessa fragilità dell’essere umano contemporaneo. “Come il volto sensuale di Eros Bendato, adagiato nello scenario antico della Valle dei Templi di Agrigento, testimone di una compiutezza perduta che è al tempo stesso tensione verso l’universo”.

Là nella Valle dei Templi le 17 gigantesche statue bronze convivono con i capolavori dell’antichità e ricreano una perfezione periclea.

La madre polacca di origini ebraiche (e deportata dalla Polonia) sopravvive ai bombardamenti di Dresda e la stessa decide di riportarlo a Cracovia. Da lì Parigi e poi il Messico e l’influenza della grande cultura del rinascimento italiano.

E una volta giunto a Pietrasanta la lezione di Michelangelo (scolpire interi blocchi di pietra per sottrazione) deve essere stato un richiamo fortissimo.

Se ne va un grande del ‘900.

Non lascia eredi ma il viandante che attraversa la piccola Atene (Pietrasanta) o il turista affannato della Valle dei Templi non potranno che sentire il vento caldo ed avvolgente della bellezza universale e della precarietà del vivere.

Alberto Brandani

Amarcord, come era bella l’Autostrada del Sole

09 Ott
9 Ottobre 2014

30948607_autostrada-del-sole-ha-compiuto-50-anni-viva-automobile-0E’ una lunga striscia di asfalto che raccorda e racconta i luoghi essenziali dell’Italia. E che ha diramato altre strisce, verso altre città, altri paesaggi. E’ l’Autostrada del Sole, che già dal nome evoca un’idea di luce, di futuro, di progresso, della smania di vivere di una popolazione che voleva dimenticare rapidamente le macerie della guerra e proiettarsi verso la velocità, lo spostamento, il consumo.

Otto anni appena servirono per la sua costruzione, dal 1958 al 1964, quando, curiosa coincidenza, ci fu anche il picco dell’indice di natalità. Brevi autostrade già erano state costruite negli anni del regime fascista: la Napoli-Pompei, la Milano-Laghi. Piccole opere pensate più nell’ottica della gita domenicale fuori porta per gerarchi e borghesi. L’Autostrada del Sole no. Con i suoi quasi 800 km è la strada di un paese che è proiettato, prima che allo svago, alla produzione. C’è bisogno di velocità per trasportare le merci, innalzare i consumi, abbassare i prezzi, diffondere benessere. Due giorni, pause escluse, servono per andare da Milano a Napoli a fine anni Cinquanta. Con l’autostrada, quel percorso si compie in dieci ore. Un processo virtuoso che innesca a catena ulteriore ricchezza.

Ai bordi dell’autostrada aree un tempo depresse diventano industriali. Ancora oggi, basta voltare lo sguardo dal finestrino a Piacenza, Frosinone, Caserta per vedere quante fabbriche sorgono a pochi metri dai caselli. Un’opera coraggiosa, l’Autosole, con il suo tracciato appenninico in alta quota, costato decine di vite umane: un percorso avveniristico per il traffico di quegli anni che, a fatica, tra mille pastoie burocratiche, si sta adesso ammodernando. E proprio i lavori contemporanei sono la cartina di tornasole di un atteggiamento diverso che la politica e la società hanno verso le infrastrutture. Diffidenza contro fiducia. Disgregazioni contro sinergie. Rallentamenti contro velocità. Politici come Fanfani più volte batterono i pugni sul tavolo affinché si facesse presto a completare l’autostrada, perché lo sviluppo e la frenesia dell’Italia non potevano più attendere. Con nuove professioni che nascevano lungo quei chilometri: il poliziotto della stradale, il casellante, l’addetto al soccorso stradale, i baristi degli autogrill.

Oggi, cinquant’anni dopo, un paese completamente diverso continua a percorrere l’autostrada del Sole e tutte quelle costruite negli anni seguenti. Certo, i treni a velocità hanno ridotto la necessità dell’automobile per gli spostamenti rapidi di professionisti e turisti di città d’arte. Ma una adeguata rete autostradale resta un’esigenza imprescindibile per il trasporto delle merci, il turismo delle famiglie, i viaggi che non toccano i centri delle città. Resiste un deficit infrastrutturale a macchia di leopardo: la Civitavecchia-Livorno, la litoranea da Venezia a Rimini, la Jonica, la Fano-Grosseto, la Orte-Cesena, la Pedemontana lombarda, alcuni nodi nella pianura veneta. Strozzature che rallentano la produttività dell’Italia, paludi in cui ogni anno si consumano, nelle code, milioni di ore di lavoro. Ritrovare lo spirito decisionale dei costruttori dell’Autosole, il coraggio di sfidare le convenzioni (molti erano contrari alla progettazione delle rampe di svincolo, preferendo le più economiche ma pericolose intersezioni a raso), la capacità di imprimere qualcosa che resti nelle generazioni a venire: impegni che ogni classe politica che abbia a cuore la bellezza e lo sviluppo dell’Italia dovrebbe tenere a mente. Cercando, magari, grazie alla tecnologia contemporanea, di costruire un’autostrada in meno di otto anni. I record si battono, non si ammirano.

Alberto Brandani – Pres. Fondazione Formiche

I disperati di Roma

03 Ott
3 Ottobre 2014

via-del-babuinoI disperati di Via del Babuino

Via del Babuino viene abbellita ma i residenti non se ne accorgono perché, a loro dire, il Comune di Roma si è “dimenticato” di organizzare la possibilità di accesso per idraulici, elettricisti, muratori. Forse basterebbe copiare Milano.

I disperati di Viale Marconi

Sempre di disperazione si tratta, ma nel senso che a detta dei residenti la zona è divenuta “una brutta zona” con cittadini che di notte occupano panche, panchine, fontanelle e creano un clima a dir poco di disagio.

Il Corriere della Sera, la lama tagliente di De Bortoli e la sulfurea vignetta di Giannelli

02 Ott
2 Ottobre 2014

vignettagiannelliUn esame lessicale dell’ormai famoso articolo di De Bortoli contro Renzi ci ha alla fine sorpreso: lo strumento linguistico sembra non essere di De Bortoli. Siccome vogliamo escludere che altri abbiano scritto l’articolo si può solo concludere che l’evidenza delle cose dette fosse tale da dovere cambiare anche il linguaggio. Renziani e anti-renziani commentavano nei bar… è tutto vero. La sulfurea vignetta di Giannelli su Bersani che dice è forse più incisiva del tanto osannato articolo. Si vede un Bersani di colpo invecchiato, incattivito, inciprignito con la calvizie che emana fumi infernali e che dice a se stesso: “Il mio 25? Sono voti rossi, ma con lui sono diventati verdini”. Rimandando prima a un problema etico (il furto dei voti rossi) e poi ad un problema politico (voti rossi divenuto verdini) con tutto ciò che questo comporta sul piano dell’analisi e del giudizio politico. Ai nostri pochi lettori l’arduo dilemma: poté più la tagliente lama di De Bortoli (affilata da non sappiamo quale arrotino) o la sulfurea inventiva di Bersani-Giannelli.

Alberto Brandani – Pres. Fond. Formiche

L’Elba parla francese: da Napoleone a Lemaitre

04 Ago
4 Agosto 2014

bicentenario-napoleone-all-elbaDi Alberto Brandani.

Anno da incorniciare il 2014 per l’Isola d’Elba ed anno in cui tutta l’isola parla francese.
La prima grande, anzi colossale, ricorrenza era il duecentenario dello sbarco di Napoleone all’Isola d’Elba. Pur nella tradizionale “diversità” elbana è stato un susseguirsi di eventi che hanno illustrato la straordinaria versatilità amministrativa, la facondia intellettuale, i rimbrotti malcelati e financo le scappatelle di un marito preoccupato di essere scoperto. E gli elbani di allora ed anche quelli di oggi guardano stupefatti le imprese del piccolo grande corso.
Da diverse angolature: dall’ormai classico N di Ernesto Ferrero allo spumeggiante libro di Massimo Nava che racconta della visita all’Elba dell’amante Maria Walewska, ospitata in una grande tenda sul Perone.
Ai posteri l’ardua sentenza. Fu frenesia d’amore o il tentativo di sottrarsi alla guardia stretta della moglie imperatrice?
E mentre la Petite Armee sfila per Portoferraio e le bandiere con le tre api sventolano in ogni dove, ecco un altro straordinario accadimento.
Nella 42^ edizione del Premio Letterario Internazionale Isola d’Elba (uno dei più prestigiosi ed austeri riconoscimenti letterari ndr) la palma della vittoria è andata a Pierre Lemaitre, un altro francese dunque, con il suo romanzo “Ci rivediamo lassù”.
Autore particolare che ha vinto in Francia il “Goncourt” Lemaitre è stato per trenta anni senza scrivere, a leggere disperatamente e ad insegnare nelle biblioteche. All’età di 56 anni prova con un libro che viene respinto da 13 editori. La moglie, bibliotecaria colta,
lo invita, serafica, a non desistere. Ha ragione, infatti uno degli editori ci ripensa e comincia il successo, come giallista atipico, di Lemaitre fino ad arrivare a questo autentico dramma sulla Grande Guerra che mette insieme Balzac e Dumas passando per
Victor Hugo. Il romanzo si svolge sullo sfondo della Grande Guerra ed è essenzialmente un affresco della società francese del dopo guerra dove si intrecciano storie e personaggi diversi.
Emerge soprattutto la grande ipocrisia della falsa retorica del culto dei morti che si trasforma rapidamente in un lucroso affare da parte di sfruttatori senza scrupoli. Il libro analizza anche il rapporto tra coloro che soffrono e coloro che approfittano della
sofferenza.  
Si tratta di un’opera di grande spessore, costruita con le forme e la struttura del romanzo tradizionale dove l’autore ci presenta una serie di personaggi indimenticabili di cui approfondisce la psicologia, rivelando di possedere con maestria le tecniche della narrazione ed evidenziando un’accurata ricerca linguistica.
Storia di amicizia e di vendetta, con mille intrighi ed avventure e con un rumore di fondo: la collera dei personaggi che pervade anche il lettore. La Francia sugli scudi dunque: in un’estate albana, tinteggiata per le grandi piogge anche dai meravigliosi colori settembrini.
Napoleone avrà visto l’isola con gli occhi della tristezza dell’esilio ma noi oggi la sentiamo, lieti, parlar francese.