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L’Elba di Bonaparte

23 Mag
23 Maggio 2021

CRONACHE BREVI DAL PIU’ PICCCOLO DEI LUOGHI NAPOLEONICI. A 200 ANNI DALLA MORTE DELL’IMPERATORE FRANCESE.

Di Alberto Brandani, da La Freccia.

«Vado all’Isola», dice tutta la gente. Oppure, con mestizia: «Vado in continente». Sessanta minuti è il tempo che la motonave impiega da Piombino all’Isola d’Elba, sufficiente per mutare lo stato d’animo del viaggiatore in sollievo e serenità, appena si comincia a intravedere la sagoma di Cavo, prima propaggine elbana, fino a quando il rosa stanco delle case di Portoferraio sembra stingere nelle acque del porto. Mentre alla sinistra del viaggiatore, stupito e intontito da tanta bellezza, appare arcigno e serrato, lassù in alto, il castello del Volterraio.

Tanti anni or sono, fui introdotto all’amore per quest’isola dalla famiglia di mia moglie, elbana doc nata allo Schiopparello. Ne rimasi subito affascinato, per il senso di profonda pace, la quiete stagnante e la privacy assoluta. Ho amato l’Elba in tutte le sue stagioni, anche se d’estate viene in parte divorata da turisti frettolosi; i frequentatori delle Ghiaie – con i suoi ritmi da primo ‘900 e le trasparenze del mare che nulla hanno da invidiare a quelle di Rangiroa – sanno, però, che ogni spicchio di terra ha un suo sapore particolare.

Napoleone non deve averla vista così. Era una fortezza imprendibile Portoferraio, un’isola nell’isola, cinta dai bastioni arcigni delle mura medicee, protetta da forti possenti, irta di cannoni. Questo l’imperatore sconfitto lo sapeva benissimo quando, nell’aprile 1814, patteggiò con gli Alleati il minuscolo Regno dell’Elba.

Nel Mediterraneo la città-fortezza era il posto migliore per difendersi, nel caso ai suoi nemici fosse venuta l’idea (e venne davvero) di deportarlo in un altrove più lontano e anzi definitivo: già in ottobre, durante il Congresso di Vienna, si cominciava a parlare delle Azzorre, dell’America, di Sant’Elena.

Per un bizzarro caso del destino, quest’isola strategica e marginale insieme, ripiegata su se stessa, senza strade, con i paesi arroccati sulle colline che si guardano in cagnesco l’un l’altro, che campava poveramente delle sue miniere di ferro, di un po’ di vino esportato in continente e delle sue tonnare, doveva ospitare per dieci mesi il personaggio più complesso, enigmatico e ingombrante della storia moderna. Era il 4 maggio 1814 – un giorno grigio, di bonaccia e pioggia leggera – quando una fregata inglese depositò a terra l’illustre sconfitto. Gli elbani, preoccupati e diffidenti, ma curiosi di “vedere che effetto fa la disgrazia”, dovettero inventarsi su due piedi una cerimonia d’accoglienza e un Te Deum in duomo, ancora odoroso di muffe invernali.

Nell’attesa l’imperatore riuscì a scorgere a Magazzini, località nell’ampia e dolce baia di Portoferraio, una bella villa di solidità ed eleganza rinascimentali, affacciata sul mare tra i vigneti. Era la casa di Pellegro Senno, uno dei notabili dell’isola, affittuario della tonnara e fornitore di presidio militare, genovese d’origine. Napoleone, che era in grado di immagazzinare nei gigabyte della sua prodigiosa memoria anche i particolari più insignificanti, lo ricordava a Parigi nel 1803 con una delegazione di deputati elbani. E lo stimava: «Ci vogliono quattro ebrei per fare un genovese!».

Alle quattro del pomeriggio tutto era pronto: i soldati, il baldacchino foderato di stagnola, la bandiera con le tre api dorate, antico simbolo di regalità che lui stesso aveva scelto. Il sindaco Pietro Traditi consegnò all’ospite le chiavi della città, inventate sul momento, impappinandosi mentre tentava un discorso. Le prime notti fu ospitato in Municipio, detto la Biscotteria perché un tempo lì vi si cuocevano le gallette per i naviganti. Individuò la zona dei Mulini come il posto adatto per costruire una dimora degna di lui: una sella in posizione dominante tra i due forti, da cui si aveva il controllo della rada e del Tirreno fino alle coste toscane.

Agli inizi dell’800 i mulini erano stati demoliti e sullo spiazzo furono edificati due quartieri per i comandanti dell’Artiglieria e del Genio, un carcere, una casetta per il giardiniere. Napoleone trasformò le costruzioni in villa, unificando e sopraelevando. Tenne per sé il piano terreno, con il salone d’onore, la biblioteca, la camera da letto, tre studioli e destinò il primo piano, con la grande sala delle feste, alla moglie Maria Luisa tanto attesa, che però all’Elba non arrivò mai. Dalla fine di ottobre quelle stanze luminose ospitarono Paolina, l’unica sorella tra i tanti fratelli a restare accanto al vinto. Particolari cure furono dedicate al giardino, su cui immettevano le ampie porte finestre. Ai lavori sovrintendeva personalmente l’imperatore, che si piccava di essere sommo architetto, artigiano, arredatore e persino operaio. Quando finirono, in autunno, Napoleone pensava già a quando e come andarsene.

Il nuovo sovrano diede subito prova delle sue vulcaniche energie. Il giorno dopo il suo arrivo aveva già visitato le fortificazioni e le miniere, dettato l’organigramma dell’amministrazione, emanato decreti su igiene pubblica, acquedotti, fogne, giardini, ponti, saline, dazi, tasse arretrate. Scoprì presto che l’isola non aveva strade carrozzabili e decise di provvedere con la consueta energia, concedendo ai suoi uomini tempi strettissimi e incontrando la fiera resistenza dei contadini, che non volevano cedere un solo palmo di terreno alle esigenze del progresso. Napoleone, che si era portato dietro almeno sei carrozze e decine di cavalli, tra cui tutti quelli della leggenda, visitava di frequente l’aspra zona mineraria di Rio, che ai suoi occhi rappresentava una piccola realtà industriale da valorizzare. Ma i progetti di sviluppo vennero frenati dalla dura realtà: l’isola non disponeva di acqua e alberi a sufficienza per lavorare il ferro in loco. Gli elbani, inizialmente ostili, furono presto travolti dalla vitalità dell’uomo, dall’ampiezza delle sue vedute, dalla sua imperiosità.

Con poche splendide pennellate lo scrittore Ernesto Ferrero illumina il Napoleone elbano: «Per uno dei tanti curiosi paradossi di cui si compiace la storia, il più piccolo dei luoghi napoleonici resta quello a più densa concentrazione di emozioni. Nel periodo elbano il grande Bonaparte divenne improvvisamente visibile a occhio nudo, come una cometa che si sia avvicinata così tanto alla Terra da sfiorare i tetti delle case. Lo si poteva quasi toccare nel piccolo duomo, tarchiato che sembrava la stiva di una nave da carico; mentre lavorava con i muratori alla ristrutturazione delle nuove residenze; mentre parlava con i contadini, intratteneva vecchi e bambini, elargiva monete d’oro agli orfanelli, organizzava matrimoni, mangiava il cacciucco con i pescatori, restaurava teatri o, magari, consigliava la coltivazione della patata al sindaco, che si vantava di essere un ottimo agricoltore. Il mito ridiventava uomo, un borghese un po’ troppo rotondo e appesantito che aveva l’aria di un commerciante appena sbarcato da Piombino per i suoi traffici» (cfr. Ernesto Ferrero, Napoleone in venti parole).

Dolce era il paesaggio delle colline occidentali, che vantava qualche bosco di castagni. Poco sopra Marciana, sulle pendici del Monte Giove, ecco il più antico e venerato santuario dell’isola, la Madonna del Monte. Napoleone lo elesse a provvisoria sede estiva, perché il luogo era ed è di un incanto metafisico, tra ciuffi di ginestre e di cisto e grandi massi incisi dalle acque in forme bizzarre. Da lassù si domina tutta l’isola e la costa toscana; e, soprattutto, nei giorni di vento, si può vedere la Corsica in tutta la sua estensione. Napoleone amava contemplarla a lungo, sopraffatto dai ricordi e dai profumi della macchia mediterranea, che gli ricordavano quelli della sua isola. Nascosta com’è, la Madonna del Monte era il luogo ideale per ospitare in gran segreto la diletta amante polacca, Maria Walewska, che gli aveva dato un figlio. Venerdì 2 settembre, sperava ancora nell’arrivo di Maria Luisa. Per quanto notturno e clandestino, l’arrivo della Walewska non sfuggì alla curiosità degli elbani, che la scambiarono per l’imperatrice senza capire il perché di tanti misteri. Ma lui non voleva dare scandalo e fece partire l’amante malgrado una spaventosa burrasca rendesse precario l’imbarco. Poi la situazione precipitò. Gli Alleati stavano meditando di prelevare l’imperatore per trasportarlo lontano, ma lui li precedette. Beffandoli. Sempre recitando la parte del Cincinnato che si è rassegnato a curare le sue vacche. Domenica 26 febbraio 1815 Napoleone se ne andò al tramonto con sette vascelli malandati e un migliaio di fedelissimi. Ad attenderlo i 100 giorni che l’avrebbero portato a Waterloo. E a Sant’Elena.

Il riformismo di Amintore Fanfani

06 Nov
6 Novembre 2015

Amintore Fanfani

Il riformismo di Amintore Fanfani è stato dal ‘46 ad oggi il più autentico e sostanziale tentativo di riformare il Paese. Esso ebbe certo in De Gasperi una levatrice benevola ma fu l’irruento aretino a determinare le condizioni di un cambiamento profondo nella storia sociale italiana.
Tre le caratteristiche generali sulle quali oggi ci soffermeremo che portarono a compiuta maturazione il riformismo fanfaniano.
La prima è la grande influenza spirituale che La Pira esercitò su Fanfani. La Pira fin dai primi anni della sua permanenza a Firenze nutre una particolare venerazione per la grande figura del Card. Dalla Costa e sarà da questi ampiamente ricambiato nella considerazione. Per lunghi periodi La Pira si reca dal cardinale ogni sera, consuma con lui cene frugali e scambia valutazioni su quanto accade nel mondo e nella Firenze del tempo, alternando queste valutazioni ad una sofferta lettura della Bibbia. Quando nel 1951 l’acuto Renato Branzi spiegò a De Gasperi e a Fanfani che l’unico modo di battere le sinistre a Firenze era quello di candidare Giorgio La Pira a sindaco di Firenze, La Pira rifiutò con tutte le sue forze. Ma la caparbia e generosa insistenza di Renato Branzi e la silenziosa spinta di don Facibeni alla fine fecero breccia nella sua armatura facendogli balenare la possibilità di fare del bene per la povera gente. Molte persone di valore accettarono di avventurarsi in quella amministrazione che con La Pira non fu ne ordinaria ne tranquilla ma sicuramente memorabile e messianica. Del resto la Firenze di allora era veramente unica: basti ricordare che nel salotto di don Bensi la sera dalle 6 alle 8 si riunivano a parlare le migliori energie della città e spesso nel dibattito spiccava l’acuta intelligenze di Calamandrei e di Momigliano.
La vicinanza di La Pira colpì molto Fanfani che nel frattempo aveva dato il meglio delle sue energie nell’appoggio al governo De Gasperi con i progetti di un vasto piano di sviluppo del Paese predisposto dai suoi amici “di Cronache Sociali ed imperniato: su una riforma agraria che trasformasse i contadini in proprietari agricoltori diretti; su una riforma fiscale con una imposizione progressiva sul reddito; sulla realizzazione di grandi infrastrutture autostradali per impiegare mano d’opera disoccupata e sviluppare la motorizzazione popolare e il trasporto di merci su gomma. L’attuazione di questi progetti – precisò Fanfani – era ormai condizione pregiudiziale per la permanenza al governo del gruppo di Cronache Sociali. Il piano fu approvato dopo tre mesi”. (cfr Ettore Bernabei – Sergio Lepri “Permesso, scusi, grazie” pag. 97 Rai ERI).
Si sviluppava nel frattempo feconda la capacità di Fanfani di anticipare la comprensione dei fenomeni sociali anche di decine di anni. Fanfani era rimasto enormemente colpito, nel primo newdeal di Roosevelt (1933-1937), dalla creazione della Tennessee Valley Autorità (TVA) che sfruttava il bacino del fiume Tennessee per costruire dighe e centrali idroelettriche. In una nota inviata il 10 aprile 1933 al Congresso, Roosevelt suggerì di creare questa azienda come “una corporazione pubblica, ma in possesso della flessibilità e dell’iniziativa tipiche di una impresa privata. Essa dovrebbe avere il più ampio dovere di pianificare l’uso corretto, la conservazione e lo sviluppo delle risorse naturali del bacino idrografico del fiume Tennessee e il suo territorio adiacente per il benessere sociale ed economico generale della Nazione”. La TVA permise a numerosi stati di ottenere energia elettrica a basso costo garantendo così un celere sviluppo economico e una migliore qualità della vita.
La terza caratteristica che oggi appare straordinaria del riformismo fanfaniano era la metodologia. L’uomo prima studiava il problema poi operava per la creazione di un progetto che appunto lo risolvesse ed infine, impetuosamente quasi, lo risolveva. Cinquant’anni di vita democratica ci dicono che purtroppo ci siamo trovati di fronte a molti studiosi, a molti che predisponevano progetti e a pochissimi che li realizzassero compiutamente. Per questo ogni ricerca storica farà gradualmente crescere l’importanza nella vita e nella crescita sociale del Paese del riformismo fanfaniano e del fanfanismo in generale.

Appunti democristiani per l’elezione del capo dello Stato

04 Dic
4 Dicembre 2014

demita_brandani

Il sistema De Mita”

Nel 1985 Francesco Cossiga venne eletto Presidente della Repubblica alla prima votazione grazie a quello che fu comunemente definito “il sistema De Mita”.

Ciriaco De Mita, segretario della democrazia cristiana, fece presente alla direzione nazionale del suo partito che si poteva usare il sistema che lui riteneva corretto del più ampio coinvolgimento possibile delle forze politiche oppure l’idea (caldeggiata per la prima volta in una elezione presidenziale da Giuseppe Saragat) che maggioranza di governo e maggioranza per l’elezione del presidente dovessero coincidere.

A Forlani, vice presidente del consiglio e candidato naturale di Craxi, l’Onorevole De Mita fece presente che la scelta dell’una o dell’altra modalità non era affatto neutra. E Forlani con signorilità convenne di andare avanti nella ricerca della più ampia convergenza possibile.

De Mita, in un colloquio riservato, propose a Natta, segretario del partito comunista, il nome di Andreotti ma questi rispose che non ce l’avrebbe fatta a portare il suo partito sul nome dell’allora ministro degli esteri esprimendo però grande considerazione per il metodo De Mita e per la conseguente richiesta di rose di nomi.

De Mita riferì ad Andreotti lo stato dell’arte e ebbe da quest’ultimo il via libera a procedere nel suo metodo.

Incontro conclusivo fu quello con il presidente del consiglio Craxi, il quale, dopo una attenta disamina, arrivò a concludere che l’unico che aveva chance era l’onorevole Cossiga.

Iniziò allora il lavoro di richiesta delle terne di nomi a tutte le forze politiche. Tutte inserirono nella loro terna il nome di Cossiga meno una, irremovibile. Era il partito liberale. Alla fine De Mita riuscì nel miracolo di convincere anche il gruppo dirigente liberale. Non si è mai saputo come abbia fatto. Qualcuno sussurra che avesse fatto balenare l’ipotesi di una successiva nomina a senatore a vita per Giovanni Malagodi che peraltro l’avrebbe ampiamente meritata.

La cosa poi a dire il vero non si verificò.

Fu così che Francesco Cossiga divenne capo dello Stato alla prima votazione senza colpo ferire.

Alberto Brandani

Presidente Fondazione Formiche

Foto: Pizzi

25 anni dalla caduta del Muro di Berlino, Helmut Kohl e Giovanni Paolo II protagonisti dimenticati

11 Nov
11 Novembre 2014

kohl_giovannipaoloIINei festeggiamenti per i 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino, sono stati dimenticati, o non celebrati come avrebbero meritato, due protagonisti di quella pagina di storia.

Il primo è il cancelliere tedesco Helmut Kohl, uno dei più grandi statisti del Dopoguerra che ha guidato il processo di riunificazione della Germania con impegno e visione, senza farsi spaventare dalla cifra spaventosa che esso avrebbe richiesto.

Il secondo è Giovanni Paolo II, il Santo Padre, che con il suo pontificato diede una forte spallata al comunismo e a quel Muro di cui si celebra oggi la caduta.

(Foto: Bill Daten)