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Ritratto di Ettore Bernabei: un protagonista del suo tempo

13 Giu
13 Giugno 2021

Da La Freccia di giugno

“Il fascino immortale della Dc”, di Marcello Sorgi

03 Feb
3 Febbraio 2018

Segnalo l’articolo di Marcello Sorgi “Il fascino immortale della Dc”: per imparare c’è sempre tempo.

Buona lettura.

Il fascino immortale della DC

La Stampa, 3 febbraio ’18

di Marcello Sorgi

Abituati da tempo immemorabile alle campagne elettorali a base di accuse e insulti irripetibili, salutiamo con una certa sorpresa l’irrompere del termine «democristiano», usato ovviamente in senso spregiativo dai molti che non sanno o non ricordano più cosa fu e cosa rappresentò, nel bene e nel male, la lunga epoca italiana della Dc, coincidente con i 46 anni della Prima Repubblica, ma sopravvissuta anche dopo, non foss’altro come mentalità e come scuola di politica che ha lasciato ancora in giro e in servizio parecchi professionisti. Se solo si riflette sull’eco avuta dai novant’anni di Ciriaco De Mita, compiuti ieri con accompagnamento di interviste e ricordi in cui ha potuto tranquillamente rievocare i suoi anni di segretario e presidente del consiglio democristiano come una sorta di età dell’oro, si capisce che in fondo anche quelli che adoperano in negativo, magari senza averlo vissuto o conosciuto, la parola Dc, sotto sotto ne discutono con rispetto e perfino con un certo rimpianto, anche se magari non sanno di cosa parlano.
Solo Bersani, che accusa Renzi di aver cancellato la sinistra dal Pd e di lavorare per ricostruire la Democrazia cristiana, ammette che quella vera, e non la parodia di questi giorni, era una cosa seria.
Per il resto, Salvini accusa Di Maio di essere diventato democristiano, e poi insieme a Meloni rivolge la stessa accusa a Berlusconi, che in anni non troppo lontani, quando era un imprenditore, diceva di se stesso di essere «socialista a Milano», in quanto amico di Craxi, e «democristiano a Roma», dov’era facile e frequente vederlo salire e scendere per le scale di Piazza del Gesù, il palazzo-simbolo del potere scudocrociato, ormai dismesso. Poi c’è Tabacci, finalmente un vero democristiano, che con una mossa da maestro, offrendo il simbolo del suo mini-partito Centro democratico, uno degli eredi sopravvissuti in Parlamento, della vecchia «Balena bianca», ha consentito alla Bonino e ai radicali, cioè agli autori della prima vera grande sconfitta della Dc nel referendum del divorzio del 1974, di presentarsi alle elezioni in alleanza con il Pd. E la Boschi che, non fosse solo per ragioni geografiche (è nata in provincia di Arezzo,) ha mostrato varie volte in pubblico nostalgia di Fanfani.
Ovviamente in tutto questo gran parlare che si fa della Democrazia cristiana, anche a vanvera, non c’è alcun tentativo di approfondimento. I convegni che in tutti questi anni si sono svolti tra le facoltĂ  di Scienze politiche e l’Istituto Sturzo sono spesso andati deserti, o hanno visto la partecipazione di un pubblico anziano e in qualche modo malinconico. Sarebbe interessante chiedere a Salvini, a Di Maio e Di Battista (Grillo no, scoperto da Pippo Baudo, la conosce e trovò solidarietĂ  nella Dc quando i socialisti, trent’anni fa, lo cacciarono dalla Rai) cosa sanno, cos’hanno capito di quell’era ormai così lontana, dopo quasi un quarto di secolo di Seconda Repubblica. E anche a Renzi, nato politicamente tra gli scout, che erano uno dei tanti mondi collaterali, come le Acli, la Confagricoltura, la Confcommercio e un po’ tutto quel che cominciava per «Conf», esclusa la Confindustria, del sistema copernicano della Dc. Quando il leader Pd, allora ancora a Palazzo Chigi, nel 2016 accettò la sfida di De Mita in un faccia a faccia sul referendum costituzionale moderato da Mentana, la sensazione era di un confronto privo di sincronizzazione, l’ex-segretario Dc, con i suoi famosi «ragionamendi», essendo ancora fortemente radicato nel Novecento, e Renzi invece apparendo come il prodotto piĂą recente e piĂą estremo di una politica tutta giocata sulla comunicazione e gli slogan a effetto. Tal che, in un primo momento, Matteo provò a mostrare rispetto per Ciriaco, aspettando il passaggio adatto a dargli il colpo fatale. Ma a sorpresa, quando il momento arrivò, e l’anziano fu accusato dal giovane di aver cambiato posizione dal centrosinistra al centrodestra pur di restare in ballo, De Mita non si scompose: «Sei un miserabile – replicò – io sono nato e morirò democristiano, mentre tu si vede che non credi in niente!».
Va da sé che De Mita, e nessuno dei vecchi leader dello scudocrociato, avrebbero sottoposto a referendum la riforma istituzionale. I referendum, come le commissioni di inchiesta (altro errore di cui Renzi, vedi le banche, non ha fatto in tempo a pentirsi), nella grammatica democristiana erano da evitare finché possibile, e al limite da concedere come sfogatoio alle opposizioni, in cambio della loro tradizionale collaborazione parlamentare. Nel quasi mezzo secolo (con qualche breve eccezione) di governi a guida Dc, la maggior preoccupazione dei presidenti del consiglio che si alternavano a Palazzo Chigi, da De Gasperi a Moro, Rumor, Colombo, Andreotti, Forlani e Cossiga, fino appunto a De Mita, con una turnazione assai frequente, erano i rapporti con Togliatti, Longo, Berlinguer, segretari del maggior partito comunista dell’Occidente, escluso per ragioni internazionali, il cosiddetto «fattore K», dalla partecipazione agli esecutivi. Relazioni sempre eccellenti, al di là di qualche cedimento alla propaganda, subito recuperato in nome del confronto considerato sempre necessario e della comune esperienza alla Costituente.
Può tornare, tutto questo? Difficile, se non impossibile, diciamo la verità. Ma una cosa su cui dovrebbero riflettere i leader del nostro tempo, intenti ad accusarsi a vicenda di essere democristiani, è che il sistema proporzionale, restaurato con il Rosatellum e tuttora vissuto come un’incognita, spinge tutti al centro: infatti è quel che sta accadendo a Berlusconi e Renzi, inseguiti da Di Maio che teme con ogni evidenza di ritrovarsi emarginato. Il proporzionale, in altre parole, è l’esatto contrario del maggioritario e del bipolarismo, la cornice in cui inutilmente gli stessi leader fingono ancora di muoversi, ben sapendo che non è più quel tempo. Così, se è difficile, o è quasi escluso che nella Terza Repubblica tornerà la Dc, per gli incoscienti che hanno fatto un passo indietro senza chiedersi quali sarebbero state le conseguenze, sarà indispensabile imparare, riscoprire, ridiventare anche loro un po’ democristiani.

L’autogol della sinistra sull’abbraccio Boschi-Pisapia

27 Lug
27 Luglio 2017

Matteo Renzi ha ragione a tenere in gran conto Maria Elena Boschi: con i suoi sorrisi ha mandato in tilt l’intera compagine di sinistra. Alla Festa dell’Unità di Milano, Giuliano Pisapia e la Boschi si sono affettuosamente salutati. Cordiale lei, gran signore lui. Solo qualche foto e il tutto sarebbe passato nella calura estiva ma le sentinelle dell’ortodossia leninista vigilavano e per cinque giorni il povero Pisapia è stato preso a sassate (metaforiche e non). Tutti i fuorusciti dal Pd si sono scatenati in questo colossale autogol compreso il di solito mite Bersani. Solo D’Alema si è ricordato che il silenzio è d’oro. Anche uomini intelligenti come il presidente della Regione Toscana Rossi sono caduti nella trappola. Si è discettato persino sull’intensità dell’abbraccio. Roba perfetta per il settimanale di gossip Chi ma non per una forza politica che vorrebbe scardinare Renzi.

Ma cosa si pretendeva da Pisapia, un signore che ha fatto il sindaco di Milano con l’appoggio determinante del Pd e che ha in piena coscienza votato sì al referendum? Volevano il volto buono della sinistra? Pisapia appunto, ma non ci si può poi lamentare se non è un inflessibile Saint Just.

Tre cose emergono da questo episodio quasi rosa. Primo: Renzi non sopporta Bersani & company (e si sapeva) ma gli altri detestano Renzi in un modo totale e apparentemente anche irragionevole. Secondo: Pisapia è un signore che ha rinunciato a rifare il sindaco di Milano e si è già stancato al solo pensiero di riunioni tipo comitato centrale. Terzo: la Boschi oltre che bella (due terzi dei giovani italiani si vorrebbero fare un selfie con lei per inondare poi la rete) ha dimostrato di essere anche brava e di conoscere la regola aurea dei fondisti della politica: sopportare ed andare avanti. Uno degli assiomi della sinistra culturale è sempre stato: meglio perdere che perdersi. In realtà una delle due cose trascina sempre anche l’altra. Dispiace che persone per bene come Bersani non colgano l’evidenza della situazione attuale.

La cultura delle alleanze

25 Lug
25 Luglio 2017


Nella prima Repubblica si insegnava fin da piccoli la cultura delle alleanze.

Era un concetto molto chiaro. L’alleanza politica allargava il perimetro parlamentare, rendeva più efficace la azione di governo e coinvolgeva un maggior numero di strati sociali. Solo da ultimo veniva valutata “la convenienza”. Oggi il mantra di Renzi sembra essere quello dell’uomo contro tutti. Quasi alla ricerca di una catarsi elettorale lungi dall’arrivare. I ceti dirigenti sono smarriti.

Parlando l’altra sera con una serie di professori universitari genericamente progressisti mi confidavano di essersi sentiti sdoganati dall’arrivo di Renzi e di aver condiviso le sue battaglie che prima nel recinto di una sinistra ideologizzata non potevano neppure essere sussurrate. Ma oggi li ho trovati angosciati e terrorizzati dall’avvento possibile dei Cinquestelle. Ma questi ceti dirigenti quanto hanno aiutato i vertici politici?

1981. All’indomani del ritrovamento del famoso elenco della P2 a villa Wanda casa di Licio Gelli il pubblico ministero Gerardo Colombo si precipitò a palazzo Chigi per rendere edotto il presidente del consiglio dell’epoca Arnaldo Forlani della gravità della cosa. Forlani era un uomo a sangue freddo ma prese la decisione di dimettersi (anche per l’amarezza, si disse allora, di aver trovato nella lista il nome del prefetto Semprini suo capo di gabinetto). L’allora presidente della repubblica Sandro Pertini respinse le dimissioni di Forlani che coerentemente le reiterò andando a proporre il nome di Giovanni Spadolini leader indiscusso del minuscolo Partito repubblicano. In una livida e drammatica direzione democristiana tutti erano contrari alle dimissioni di Forlani ma egli spiegò che l’unico democristiano che poteva stare a Palazzo Chigi si chiamava Giovanni Spadolini spiegandone l’affidabilità umana, personale e politica. La direzione centrale Dc dapprima riottosa si fece lentamente convincere e fu così che si insediò un presidente del consiglio laico ed un presidente della repubblica, Pertini, anch’esso laico.

Anche nel ’83 Forlani e De Mita ebbero chiaro il senso e la cultura delle alleanze. Accettarono la presidenza del consiglio per il socialista Bettino Craxi ma la Dc ottenne la maggioranza del consiglio dei ministri (14 per l’esattezza) e mise Andreotti agli Esteri, Scalfaro agli Interni e Forlani vice presidente del consiglio. Furono 4 anni di solidità politica e di sviluppo democratico ma senza la cultura delle alleanze e ceti dirigenti preparati non se ne sarebbe fatto nulla.

Hillary e l’October Surprise

12 Ott
12 Ottobre 2016

clinton_trump

L’autunno è arrivato e gelido spazza via la mite stagione estiva. Anche l’autunno della politica è arrivato e se ne è avuta una riprova nel duello televisivo tra Hillary e Trump. Scontro tossico quasi plumbeo con momenti più da Grande Fratello che da battaglia per la leadership del mondo. Ma su questo vogliamo ancora essere chiari essendo ormai quasi due anni che a più riprese cerchiamo di illustrare perché Hillary sarebbe la giusta continuazione di Obama alla Casa Bianca.

Perché è donna, perché è preparata, colta e sensibile. E se poi non riesce ad essere accattivante negli abbracci con la folla, pazienza, ce ne faremo una ragione. Il danno che Donald Trump ha già fatto alla democrazia occidentale in genere è comunque vistosamente enorme. Le oligarchie imperanti nell’est ancora sovietico, le tirannie sparse ovunque, gli autoritarismi in genere rideranno beffardi dei meccanismi perversi della democrazia che portano una persona come Trump comunque ad un soffio dalla Casa Bianca.

Molti commentatori italiani e stranieri hanno sottolineato la povertà di contenuti, ma non hanno a sufficienza declinato due scomode verità. La prima: Trump, il suo personaggio e le sue volgarità hanno fatto impennare i consumi televisivi on e offline. Era insomma come offrire patatine fritte ai bimbi a merenda ed i giornalisti, le televisioni, tutto ciò che muove il mondo dello spettacolo e dei consumi non si sono fatti scappare l’occasione. Trump doveva andare avanti perché ogni giorno di più rimpinguava i budget pubblicitari e di ascolto. Certo Trump ha anche incarnato quel vento del no di cui parleremo in un prossimo articolo che sta devastando le democrazie occidentali.

La seconda: la tendenza al basso nel dibattito di questi mesi è stata solo e unicamente di Trump. Ad Hillary Clinton, giornalisti sussiegosi e maitre a penser esoterici hanno rimproverato che era troppo preparata, troppo brava, troppo secchiona insomma per apparire anche simpatica. Hillary ha cercato fino all’ultimo di spostare la battaglia sui temi della competenza e dei contenuti, ma Trump ovviamente non ha abboccato. Non sapendo niente di niente era per lui più comodo un confronto da bar e volgarità da spogliatoio, con aggiunta la spietata minaccia se eletto di mandare Hillary in galera.

Tutti attendevano l’October surprise, e c’è stata in effetti: è bastato semplicemente che Trump per qualche momento svelasse la sua reale caratura politica e culturale.

Primarie americane: perché continuiamo ad essere per Hillary

11 Lug
11 Luglio 2016

obama-clinton

di Alberto Brandani, articolo pubblicato su Specchio Economico

Da qualche anno, come sanno i 15 lettori che ci seguono appassionatamente, abbiamo spiegato le ragioni della stima e del rispetto che Hillary Clinton si è guadagnata e che vorremmo brevemente qui riassumere. Competenza sui dossier, senso delle istituzioni, visione dei problemi, condivisione del sentimento più genuino del popolo americano.
Oggi però ci vogliamo dedicare all’analisi dei risultati complessivi delle primarie, del rapporto tra Hillary e Bernie Sanders e quello più complessivo tra Hillary Clinton e Donald Trump.

PRIMARIE: UN BAGNO DI DEMOCRAZIA

Non esiste in nessuna parte del mondo (né in quello occidentale e tanto meno in quello orientale) un così completo e compiuto bagno di democrazia come sono le primarie americane e le conseguenti elezioni presidenziali. Tanto per avere un idea è forse opportuno snocciolare alcune cifre. Hanno partecipato al voto delle primarie repubblicane e democratiche circa 60 milioni di elettori, cittadini cioè che si sono prima presi la briga di andarsi ad iscrivere nelle liste delle rispettive primarie per poi poter partecipare. I candidati alle primarie hanno «arato» il Paese metro per metro insieme con migliaia di attivisti, di volontari, di quadri di partito. In questo contesto così generale vediamo i dati che riguardano Hillary.
Hillary: 16.505.319 voti pari al 55,58 per cento.
Sanders: 12.695.657 voti pari al 42,75 per cento.
La prima osservazione è che il distacco che per mesi è stato artificiosamente fatto apparire esiguo è in realtà vistosissimo, perché tra i due c’è un divario di 4 milioni di americani che ci pare incontrovertibile (quando Obama sconfisse Hillary nel 2008 i voti popolari erano quasi eguali n.d.r.). Hillary ha vinto nel numero di elettori, ha vinto nel numero di delegati eletti, ha stravinto nelle preferenze dei super delegati. In altre parole ha vinto sempre contro un avversario che aveva un unico obiettivo: spostare vistosamente a sinistra la piattaforma dei democratici, battere gli odiati Clintoniani e fare il pieno del radicalismo statunitense. Tra l’altro avendo il vantaggio di essere un battitore libero e come tale di non avere niente da perdere.
Hillary è stata invece sottoposta ad uno stress psicofisico e a un dispendio di energie terribile. Da un lato doveva contendere metro per metro a Sanders, ma dall’altro non poteva certo attaccarlo troppo perché sapeva che in caso di vittoria doveva recuperare gli entusiasmi, i voti ed il malcontento dei democratici che votavano il «Grinta del Vermont». Dall’altro doveva duellare con Trump per non lasciargli la scena pur evitando di cadere in quella corrida di volgarità e becerismo in cui Trump ha fatto di tutto per coinvolgerla. Trump infatti prima ha lanciato un video sui peccati sessuali di Bill quasi che Hillary tacitamente li sopportasse e poi ha iniziato una campagna sulla disonestà di Hillary stessa.
Tutto ciò non ha scomposto questa donna straordinaria che nei due Stati chiave che tutti consideravano una sorta di giudizio di Dio ha dato una risposta incontrovertibile. Nello Stato di New York Hillary ha raccolto 1.037.344 voti e Sanders 752.739. In California Hillary ha raccolto 1.945.580 voti contro il milione e mezzo di Sanders. Distacchi abissali che confermano la forza e il coraggio di questo animale politico che è l’avv. Rodham Hillary Clinton entrata nella storia come prima donna in corsa per la Casa Bianca.

DA QUI ALLA CONVENTION

Ma veniamo ai contenuti. Ora il partito democratico è impegnato in una ricucitura Hillary-Sanders sotto l’alto protettorato del presidente Obama che dopo aver incontrato per un’ora e mezzo il senatore del Vermont ha diffuso un messaggio registrato di esplicito e totale appoggio a Hillary Clinton. Del resto nel 2008 Hillary pur con un grande numero di delegati si era ritirata a favore di Obama e il discorso suo e quello di Bill infiammarono i cuori e le menti dell’intera Convention. Solo da una settimana Hillary ha cominciato a rosolare a fuoco lento le sciocchezze a getto continuo che Trump finora ha detto. Facciamo qualche esempio: i dirigenti democratici non faranno passare liscio gli insulti ad un giudice messicano, il continuo frasario razzista, il disprezzo evidente verso le donne e gli immigrati. Su tutti questi fronti Trump dovrà vedersela con tutto l’establishment democratico del Paese che d’ora in avanti non gliene farà passar liscia neppure una.
Hillary dalla sua ha quattro assi nella manica:
• l’incontestabile vittoria nelle primarie. Se le proiezioni sono corrette finirà per avere delegati 4 volte di più di quelli che aveva Obama nel 2008;
• l’endorsement di Obama la cui popolarità sfiora il 50 per cento dell’intero elettorato e tale popolarità si ritrova solo negli anni d’oro di Reagan e di Bill Clinton. Possibile Obama così popolare e scegliere un successore che distrugga tutto ciò che ha fatto?
• Facendo capire che nominerà Bill Clinton una sorta di zar dell’economia, Hillary colpisce al cuore positivamente chi cerca lavoro e la classe media bianca in parte delusa. Bisogna infatti ricordare che Bill Clinton creò 26 milioni di posti di lavoro (anche se essendo oggi la disoccupazione in America al 4 per cento, viene considerata dagli specialisti praticamente inesistente);
• Hillary ha pronunciato un grande discorso sui temi della sicurezza nazionale e dopo la strage di Orlando è ragionevole pensare che gli americani si vogliano affidare a chi sa dove mettere le mani piuttosto che ad un signore che insulta il governatore del New Mexico, sogna un protezionismo sfrenato e non ha una visione né di politica sociale né di politica economica né di politica estera e apostrofa un giudice messicano solo perché sta decidendo una causa civile contro Trump.
Resta l’incognita Sanders, ma noi riteniamo che non farà come il radicale socialista Nader che fece perdere le elezioni al democratico Gore contro Bush per centinaia di migliaia di voti rendendo così decisiva una manciata di voti di una sconosciuta contea della Florida.
Al dunque secondo gli studiosi vi sono in America 100 milioni di elettori centristi ed indipendenti e, come in ogni parte del mondo, saranno loro a decidere l’esito elettorale: saranno pronti a varcare il ponte trumpiano verso la negazione dei valori storici che hanno fatto grande l’America, rispetto del prossimo, trasparenza, merito, generosità, accoglienza degli immigrati, difesa nel mondo della libertà? La nostra risposta è no.
Due fantasmi si aggirano nel mondo libero e occidentale, la Brexit e la vittoria di Trump. Il successo del Leave in Inghilterra rende chi crede nei valori fondanti dell’Europa tristi e più soli. I padri fondatori dell’Europa volevano un’area dove circolassero le persone, le cose e gli aneliti di libertà. Non ci dobbiamo abbattere ma dobbiamo piuttosto vedere come la vicenda inglese ed il caso Trump segnalino ai governi del mondo occidentale problemi irrisolti e che vanno analizzati senza superficialità e senza distrazione alcuna. Lo dobbiamo ai nostri figli e alle nuove generazioni.

Brexit, ovvero se i governanti fossero piĂą saggi…

27 Giu
27 Giugno 2016

An EU official hangs the Union Jack next to the European Union flag at the VIP entrance at the European Commission headquarters in Brussels on Tuesday, Feb. 16, 2016. British Prime Minister David Cameron is visiting EU leaders two days ahead of a crucial EU summit. (AP Photo/Geert Vanden Wijngaert)

Se i governanti fossero piĂą saggi e non proponessero in modo ossessivo agli elettori problemi piĂą grandi di loro, non ci troveremmo di fronte a questi disastri.
I nostri padri costituenti -non a caso- avevano previsto nella nostra Costituzione, la più bella del mondo (made in Benigni), che argomenti così delicati non erano sottoponibili a referendum. Satis est.